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giovedì 24 Maggio , 2007

Corpi Sottili

Luogo: Photo&Contemporary, Torino
Artisti: Beatrice Pediconi

L’ultima serie di lavori di Beatrice Pediconi potrebbe essere annoverata, per convenzione, sotto un nuovo modo d’intendere la fine della fotografia e della sua storia. Con l’avvento della civiltà mediatica, la produzione e il consumo abnorme di immagini, è diventato chiaro a molti artisti ciò che uno dei recenti protagonisti dell’obiettivo, Vik Muniz, sostiene da tempo: “se vuoi fotografare qualcosa di nuovo prima devi crearlo”. L’idea di una fotografia che ha il compito di oggettivare la natura, il mondo umano o anche le astrazioni derivanti dai più ricercati giochi di luci e di materiali, lascia il posto ad una fotografia di messa in scena, più pensata, nel cui solco trovano spazio artisti come Man Ray ed Helmut Newton; Joel Peter Witkin e Shirin Neshat, passando per Mattew Barney e Vanessa Beecroft, per Jeff Wall o Gregory Crewdson. Lontano dalle effervescenze neo-barocche delle costruzioni mastodontiche, sempre più imponenti e drammatiche, di questi ultimi, le composizioni della giovane fotografa romana si abbandonano al lato etereo della materia, al suo corpo sottile, scomponendola e mettendola in movimento tramite un sentimento dell’indefinito reale, di un mondo di sensazioni che alimentano la vita interiore di ciascuno di noi e che l’arte ha trascritto nel Novecento usando come linguaggio precipuo le estasi brutali dell’espressionismo astratto. Un “dripping” austero è invece quello di Pediconi, aggraziato da un’ispirazione giunta allo stremo delle forze, come quando della violenza delle passioni resta solo più il ricordo, malinconico e pungente. In questo senso, i corpi sottili nei campi bianchi, grigi e beige (sempre a metà tra colori definiti e definitivi) restano in mezzo al guado, dentro un sentire che “si sente sentire” ma non si afferra e non si comprende con le astuzie della ragione, come avviene nelle migliori tautologie metafisiche barocche e negli studi di ottica del tempo. Pediconi proviene dalla fotografia d’architettura: i suoi lavori di oggettivazione fotografica degli edifici di Massimiliano Fuksas o di Kenzo Tange, la sua collaborazione con le riviste d’architettura, sembrano agli antipodi di questa serie più intima e seducente, giocata sull’evanescenza, l’irriducibile leggerezza di forme che nascono e muoiono solo davanti all’artista, calata in una meticolosa sperimentazione di cui la fotografia trattiene le tracce estreme, uniche, frattali. La serie delle “Scomposizioni” potrebbe sembrare un lavoro meno concludente, più aleatorio, rispetto alle strutture e alle masse definite, le forme conchiuse e la materia imponente dell’architettura. Eppure, nel poter registrare alcuni improbabili comportamenti estetici della materia, in questo caso dell’acqua, dell’inchiostro e della luce, la fotografia esprime così la specificità di un ruolo portante nella definizione del nostro panorama fenomenico: non soltanto il mondo visibile, ma anche un mondo più vasto di forme possibili si apre di fronte a noi quando la fotografia tiene fede alle sue promesse. Non una promessa di felicità, che rivendica la pittura, ma di ricchezza interpretativa, di scandaglio del reale al di là di ogni nostra volontà astraente e simbolizzante, che pertiene invece alla cultura ovvero all’elaborazione intellettuale del reale. La fotografia si scontra sempre con il nocciolo più duro del reale, con la sua materia, fosse anche la luce più pura. In questo senso Pediconi trova un proprio sentiero per riunire la materia e il segno, l’indicibile tattile di molecole che si scontrano in forme dai mille “volti” (e dai mille sguardi, come le “macchie di Rorschach” e la psicologia della Gestalt ci hanno insegnato) dentro un progetto d’interpretazione, di disegno e di progetto anti-espressivo di un mondo interiore che è più reale e meno visibile di quello esteriore. Nel suo manierismo Bill Viola ha rinnovato la consapevolezza che siamo enti mimetici e che spesso viviamo emozioni per contagio; la sua scelta di porle sul volto di attori, codificandole dentro espressioni eccessive, segue l’esempio dei classici tramite la rinnovata forza luminosa del cinema e della fotografia. Pediconi tenta una via più essenzialista ed astratta, che coinvolge le abilità intellettuali (nel gioco della decodifica di tecniche e materie) e l’intuizione emotiva degli spettatori. La serie qui presentata si fonda sull’incontro delle due materie di riferimento, con la fotografia che interviene tre volte: quando il segno è evidente, in “corpi sottili”; mentre si sfrangia e si perde nelle “scomposizioni”; quando la dissolvenza è in atto, nei “movimenti”. Il progetto espositivo assume i toni di una successione di stati, come le tavole schizzate di un progetto visivo circa un trattato sulla vita delle esili sostanze: dei corpi sottili dell’alchimia, dell’astrologia e delle filosofie orientali. Lo sviluppo apparentemente organico di queste forme possiede in sé, forse non a caso, anche lontane evocazioni di un mondo agli antipodi come quello dell’architettura: i “Movimenti” numero 16 e 21, per esempio, sembrano essere piante architettoniche elaborate al computer, modelli di un’architettura fluida e organica che sembra far capolino in questo astratto “bestiario” di forme emotive, dentro un lavoro che si afferma per la forza dell’immaginazione che l’alimenta. Un viaggio fin dentro i luoghi, propri dell’artista, dove lo spazio più reale risulta l’evanescente luogo della vita interiore. Nicola Davide Angerame

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